Questo post mi vive in testa già da qualche giorno. O, per la precisione, il titolo e una vaga idea dei contenuti di questo post vivono nella mia testa ormai da qualche giorno. Questo non assicura nulla, sulla qualità delle elucubrazioni che seguiranno. Soprattutto perché avrei dovuto scriverlo nei giorni scorsi: oggi non è proprio la giornata adatta. Perché sono triste, per via dei capricci affettivi di cui sopra... cioè, dei bisogni che a volte sovrastano il mio raziocinio e mi rendono un soggetto elemosinante attenzioni. Non avrei neanche bisogno di elemosinare, questo è il bello: solo che il melodramma è il mio habitat naturale, ça va sans dire.
E' che a me basta uno sguardo sfuggente o una porta chiusa un po' più bruscamente per sentirmi ferita. Lo so ch'è quantomeno delirante e so che detesto il paradigma esistenziale del "sono fatto/a così"... ma stavolta lo dico pure io: sono fatta così, ecco. Provo a controllarmi, provo davvero, ma ogni tanto crollo nel baratro dell'amplificazione emozionale e divento una sorta di madonna piangente in acido. Mea culpa.
Mi sento un po' patetica, difatti.
Ma torniamo a noi.
Nell'ordine, ad Antichrist, l'ultimo film di Lars Von Trier. Quello dei fischi a Cannes, per intenderci, e della volpe parlante. Ebbene, è un film paradossalmente molto estetico. Nonostante, il clitoride della Gainsbourg [ch'è brutta come poche, sfido chiunque a contraddirmi] tagliato con le forbici e diverse altre forme di violenza visiva sommamente inutili e unicamente fastidiose. Risulta, peraltro, evidentissimo il fatto che il vecchio Lars sia appena uscito [se n'è veramente uscito, poi] dal tunnel della depressione. Eppure l'idea di fondo è pazzesca e bellissima e, in verità, molteplice: c'entra con la crudeltà della natura e quindi, in strettissima relazione, con l'inspiegabile legame madre-figlio, che a volte può essere doloroso e micidiale; c'entra con l'implicito sadomasochismo dei rapporti di coppia, anche se non nei termini eccessivi in cui viene descritto nel film; c'entra col l'inquietudine umana impossibile da curare; c'entra con gli aspetti più sporchi del sesso, che esistono e spesso predominano sull'amore di cui ci si riempie tanto la bocca; c'entra col fatto, per quanto velatamente misogino, che la donna ha in se stessa un mistero cupo e solenne, capace di condurla a quel delirio d'onnipotenza che solo il concetto di creazione, vivo in lei e non nell'uomo, può generare.
In tutto ciò, la forma è sostanza. Anche nelle esagerazioni sadiche, oltremisura disturbanti per lo spettatore, con cui il vecchio Lars si lascia prendere un tantino la mano. Perché l'intento di base, secondo me, è quello di traghettare un messaggio ch'è in se stesso disturbante, molto difficile da digerire, e la forma estetica [molto estetica, soprattutto nella lenta sequenza del prologo in bianco e nero] diventa sostanza, in un certo senso. Un messaggio tanto violento non può arrivare nella sua interezza senza il fondamentale veicolo delle immagini, della carne martoriata, del dolore, delle miserie umane. Probabilmente, per quanto io abbia trovato eccessive alcune scene, si è trattato di scelte imposte dall'aggressione concettuale ch'è il senso di fondo del film.
Ah, piccola nota a margine: chiunque abbia visto il film e pensi di averne compreso il finale, è pregato di farsi vivo e illustrarmi le sue teorie in merito.
Stabilendo una - quantomeno - azzardata connessione, arrivo ad Avatar. Ebbene, Avatar fa un uso della forma simile. Prima di scoppiare in una fragorosa risata, che abbia ad oggetto le mie capacità di osservazione, permettetemi di esprimermi. Dunque, Avatar non esiste senza la sua forma, che non è solo il 3D ma in generale la spettacolarità: ecco, la spettacolarità visiva è necessaria perché il film esista e sia apprezzabile. Perché il film è molto bello, nonostante la storia sia abbastanza prevedibile, quasi una parabola biblica lunga due ore e quaranta: ciononostante, il film è molto bello. Perché, per l'appunto, la forma dà sostanza al film: sorregge una storia abbastanza semplice e le dà spessore, anche con un'insospettabile ricchezza di spunti empatici ed emotivi.
Il messaggio è estramamente positivo, in bilico tra il consumato paradigma del rispetto del diverso e dello sconosciuto, in cui potersi ritrovare e rinascere, e l'amore per la natura, una natura - questa volta, non come in Antichrist - madre benevola, terapeutica, sovrana e onnicomprensiva. I rapporti sono molto puliti, manifesti e rispettosi dell'umanità [gli stessi pandoriani, pur non essendo umani in senso stretto, sono molto simili a noi, per non dire uguali: solo molto grandi e molto blu, in fondo]. I sentimenti sono quelli classici: odio, amore e poco altro. Ci sono buoni e cattivi, con una rigida distinzioni di ruoli e destini.
Insomma, è la forma che, oltrepassando i limiti concettuali che James Cameron aveva manifestato ampiamente già in Titanic, riesce a rendere Avatar un film da guardare, da godere, da ammirare e da non liquidare con qualche preconcetto intellettualistico più banale di quanto James Cameron, pur sforzandosi e quasi riuscendoci, riuscirà mai ad essere.
Ma andiamo oltre.
Le abitudini, dicevo nel titolo. Le abitudini sono salvifiche e danno stabilità: quando Manuel Agnelli, in Bunjee Jumping, diceva "la tigre sarà la stabilità" forse sbagliava. E forse era solo per infilare - in una canzone bellissima, per carità - una rima ben riuscita.
Ancora una cosa, che mi è venuta in mente l'altro giorno mentre lavavo i denti [momento metafisico per eccellenza].
Una volta, qualche anno fa, anche se non ricordo in che circostanza, mia madre mi ha detto che le donne devono sempre farsi desiderare. Secondo mia madre, devono essere gli uomini a fare sempre la prima mossa, più o meno in tutto, soprattutto nel sesso. E lei sostiene che sia l'unico modo per far durare una storia, anche e soprattutto da sposati: secondo lei, il consenso della donna non deve essere scontato, non deve essere certo e matematico. Bisogna che il rapporto sia sempre in tensione, tra il desiderio dell'uomo e la pudica reticenza della donna, che non vuole anche se vuole, che non ci sta anche quando vorrebbe starci, che dice di no per dire di sì... e tutta una serie di contraddizioni in termini che vanno ben al di là delle mie capacità di comprensione.
Ora, quello che mi è venuto da pensare è che potrei non essere figlia di mia madre. Vari indizi confermerebbero il contrario, è vero, ma, alla luce dei miei quasi 24 anni, devo dire che non potremmo essere più diverse. E che compatisco mio padre.
Cos'altro? Mia madre non approverebbe ma... stanotte mi mancherai. Tanto lo sai già.
I will lay me down.
La Gainsbourg non è brutta.
[wd?]