sapere che sarò morta, quando leggerai questa lettera, mi esalta: se stai leggendo, ora, è perché la mia cremazione è già avvenuta ed io, in buona sostanza, non esisto più. E’ eccitante sapere che queste parole saranno sotto i tuoi occhi soltanto quando non potrai più vedermi né avermi con te: mi sembra quasi di poter riuscire, finalmente, ad ostentare la mia forza di volontà, quella che mi ha permesso di liberarmi di te. In un modo o nell’altro.
Ricordi quando, dopo le lunghe litigate, ti dicevo: “io ho un progetto”. Beh, questo era il mio progetto. Uccidermi. Non che io l’abbia fatto per la frustrazione di uscire sempre sconfitta, dalle discussioni con te: non sono così stupida, Vittorio, e lo sai bene. Il mio progetto è superiore. Perché – vedi – io non morirò realmente. Io potrò vederti. Da morta, sì, io potrò vederti. Mi basta il tempo necessario ad osservarti reagire alla mia dipartita: mi basta poter constatare che sarai effettivamente distrutto. E quella sarà la mia rivalsa, l’essere riuscita a distruggerti nel modo più spietato che io riesca ad immaginare. Lascia che ti dica come dovranno avvenire le cose, in che modo vorrei che tu ti comportassi. E non pensare che questa lettera sia un testamento: queste non sono affatto le mie ultime volontà. Prendile pure come una sorta di istruzioni per l’uso: ecco, sì, le istruzioni per l’uso della mia morte. Certo, puoi ignorarle: sei libero di agire come meglio credi e, del resto, è sempre stato così. E’ piuttosto un mio capriccio, quello di constatare se le mie previsioni corrisponderanno, poi, alla realtà dei fatti. Permetti che io lo soddisfi, questo primo ed ultimo capriccio.
Dunque. Punto primo. Secondo i miei piani, dovrai essere tu a trovarmi. Probabilmente sarò riversa sul tavolo della cucina, bianca come un cencio, forse anche un po’ violacea, e avrò la siringa ancora infilata nel braccio. Sì, sai, ho pensato che, avendo deciso di morire, sarebbe stata una buona idea quella di sapere cosa si prova a farsi di eroina, almeno una volta nella vita. La dose, però, sarà massiccia, tagliata con l’acido o non so che altro: quel che conta è che sarà letale. Perciò, sarai tu a trovarmi. M’inietterò la dose intorno alle sei del pomeriggio, in modo tale che quando tornerai, alle sette e mezzo, mi troverai già morta da un pezzo. Spero di non puzzare, onestamente: sai bene ch’è una cosa che proprio non sopporto, il cattivo odore. Dicevo che mi troverai, mi chiamerai a gran voce, comincerai a preoccuparti, mi alzerai il viso, probabilmente tirandomi i capelli, e poi ti renderai conto che non respiro. Il tuo viso sarà una maschera di orrore: sarai terrorizzato, annichilito, disperato. Allora chiamerai l’ambulanza, che – di sicuro – impiegherà un tempo infinito ad arrivare: i medici ti diranno che ormai non c’è più niente da fare e mi porteranno all’ospedale, all’obitorio o che so io. Tu sarai sempre lì, domandandoti dove posso aver trovato il coraggio per fare una cosa simile: domandandoti come la tua piccola panda possa aver pensato ad una cosa tanto spaventosa.
Punto secondo. Dovrai telefonare ai miei, e tu detesti i miei genitori dal profondo del tuo cuore. Ma dovrai chiamarli e ti risponderà mia madre. A quel punto, le dirai – con la voce rotta – che sono morta, che mi sono ammazzata, che devono venire subito in città. Mia madre ti chiederà se sei impazzito, ti dirà che mi ha sentita solo poche ore fa [sì, le ho telefonato io: concedimelo, volevo sentirla prima di andarmene all’altro mondo], poi inizierà ad urlare e infine cadrà a terra svenuta. Ci saranno altre mille telefonate, parlerai anche con mio padre, scoprirai che non è così borghese come lo immaginavi, li inviterai a casa nostra per tutto il tempo che occorre. E loro arriveranno prima di quanto ti aspettassi: mia madre sarà a pezzi e mio padre sarà un uomo distrutto. Li impressionerà il fatto che, dopo tutto, tenevi a me tanto da non riuscire più a spiccicare due parole di senso compiuto e, ciononostante, ti daranno addosso – non so quanto velatamente, forse per niente – e poi ti chiederanno con insistenza perché avrei dovuto darmi la morte. Vorranno una risposta da te, amore mio, e tu dovrai trovarne una, ed anche sufficientemente credibile. Altrimenti ti uccideranno.
Punto terzo. Dovrai combattere un’aspra battaglia per la mia cremazione: i miei genitori vorranno, senza dubbio, che io abbia un bel funerale tradizionale, con tanto di bara e marmo lucido. Ma tu sai perfettamente che io non sopporto l’idea di putrefarmi, murata dentro un loculo buio. Perciò combatterai contro di loro e, alla fine, dovrai vincere. Farai in modo che io venga bruciata dentro un inquietante forno mortuario, sceglierai un’urna dentro cui conservare le mie ceneri e poi dovrai arrenderti a infilarle da qualche parte, in un posto oscuro, perché la legge italiana non ci permette di disporre dei nostri cadaveri. Ahimè, pensano di poterci controllare persino da morti… ma questo è un altro discorso.
Punto quarto. Improvvisamente, dopo tutti gli obblighi pratici di cui dovrai e vorrai [perché lo vorrai] occuparti, comincerai a pensare al perché. Sarà come un fulmine a ciel sereno: il pensiero di me, di quello che può essermi passato per la testa, t’invaderà le sinapsi e inizierai a non pensare ad altro. Non potrai esimerti dal passare giornate intere, settimane, mesi, forse anni, a chiederti come posso aver compiuto un gesto tanto azzardato, in qualche modo coraggioso, di certo sconcertante: questa lettera vuole fornirti una piccola spiegazione. Questa lettera, anzi, si propone proprio di intervenire nel mentre ti ritrovi a frugare tra la mia roba, ad infilare la testa in tutto quello ch’è stato mio: voglio aiutarti. Non ti dirò espressamente perché l’ho fatto ma sappi che non sono disperata, non sono pazza, non sono schifosamente irrazionale [come ti piace definirmi]: forse, forse sono solo una donna capricciosa oppure una donna innamorata o magari una bambina incastrata per sempre dentro un corpo che non è il suo.
Punto quinto. Chiuderai questa lettera nel cassetto più remoto della tua scrivania Ikea, chiuderai a chiave lo sgabuzzino, dopo averci stipato dentro ogni mio bene materiale: t’imporrai di non pensare più a tutto quello ch’è stato, di non versare più una sola lacrima [ma non ne verserai molte, sta tranquillo], di non avere più a che fare con quei due malati di mente dei miei genitori. Scoprirai ch’è più difficile di quanto pensassi, smettere di tormentarti per me, e il numero dei tuoi bicchieri di whiskey salirà inesorabilmente, rendendoti cerebralmente un’ameba. Dormirai poco, lavorerai tanto e male, scoprirai di portarti dentro un dolore fin troppo simile al mio, a quel dolore contro cui hai sempre voluto opporre il dono mistico del raziocinio. E poi, così di punto in bianco, un giorno, dormirai: per ventiquattro ore, forse, dormirai come un bambino. E, al mattino, io sarò, in un certo senso, sparita.
Punto sesto. Ti convincerai di potermi cancellare via, come con un clic del mouse: penserai che, prima o poi, l’idea di me si allontanerà nell’eterno, in un qualcosa di molto simile al tramonto del tempo, e ti sentirai sollevato. T’illuderai, amore mio: t’illuderai che sono stata soltanto una parentesi, una parentesi lunga quasi dieci anni, nell’arco di una vita, ch’è la tua. Quella vita che ti ritrovi in testa ogni giorno, contro cui non sai più che razza di lotta ingaggiare.
E’ stato così bello che non saprei in che altro modo finire.
Amandoti, e dolorosamente,
Ofelia
You don't care if it's wrong or if it is right.
cazzo.
reale o immaginaria, la comprendo.
davvero.